editoriale
        
        
          
            Alternative?
          
        
        
          Q
        
        
          uestoè il quadro certo chepersisterànei prossimi anni: crescitamodestanei paesi occidentali
        
        
          e crescitadegli investimentimondiali garantitadalle economie emergenti il cui sviluppo eco-
        
        
          nomico ed incrementodemografico farà da volano allo sviluppo edilizio.Per questomotivo
        
        
          dire che la crisi del ciclo edilizio nel nostro paese è finita non è irragionevole, significa
        
        
          piuttostodarecorpoaduna visione realisticadel qui, ora: uno statodell’artecheperdureràperdiversi
        
        
          anni. Inquestocontesto,nelnostropaese, lepossibilitàdi azione sono ridotte,dinicchia, specialistiche.
        
        
          Rigenerazioneurbana, sostituzioneedilizia, costruzione sul costruito inmezzoa farraginosità in termini
        
        
          di norme edilizie destinate amorte sicura, ma forse ancora lenta. Chi opera in Italia deve sapere che
        
        
          non si torneràmaipiùallo statodelprecrisi;bisognaperciòattrezzarsi.Mentre si sonoristretti imargini
        
        
          di azione emodificato il contesto incredibilmentequello chenon è avvenuto è il nostro cambiamento
        
        
          quali attori inuno scenario trasformato, imprese oprofessionisti del settore che siamo. Nellamaggior
        
        
          parte dei casi facciamo fatica a trasformarci attaccandoci a modalità organizzative e di management
        
        
          ormai stanche. Il mercato non c’è? Eppure persistiamo nel cercare lavoro qui. Il management non
        
        
          produce le intuizioni necessarie? Non si pensa come rinnovarlo, o stimolarne i processi decisionali
        
        
          con il sostegno  di stakeholder o processi formativi qualificanti e dfferenziati: si assume come dato.
        
        
          I dipendenti sono un lusso? Non si ipotizza il loro coinvolgimento nello sforzo di rielaborazione in
        
        
          quanto capitaleumanochehaaccumulatoesperienzae visione sull’assettogeneralediversodal nostro.
        
        
          L’osmosi produttiva tra il nostro paese e gli altri è inoltre molto singolare. Secondo il ministero del
        
        
          welfare britannico, nel 2013 44mila italiani hanno richiesto il national insurance number per poter
        
        
          lavorare nel RegnoUnito con un aumento del 66% rispetto all’anno precedente: si tratta per lo più
        
        
          di giovani. Il  numero di italiani all’estero sta crescendo, siamo un esportatore di talenti che trovano
        
        
          spessoposizionidi rilievonell’imprenditoria straniera;nel contempo siamo incapacidi attrarrepersone
        
        
          qualificate. Lapercentualedi persone con istruzione terziaria tra gli stranieri cheprovengono in Italia
        
        
          (12,2%)è tra lepiùbasseneipaesiOCSE,moltodi sotto lamediagenerale(23,2%)ediquelladeipaesi
        
        
          dell’Europa (18,6%) ed il primo settoredi attività in cui si riversano èovviamente l’edilizia. Lavoratori
        
        
          che si collocano soprattutto inmolte regioni delCentroedelNord, favoriti dal tradizionale “nanismo”
        
        
          del tessuto imprenditoriale italiano che tutto tollera: oltre la metà delle imprese registrate negli
        
        
          elenchi camerali sono infatti ditte individuali. L’emigrazione di imprese italiane all’estero è tutt’altra
        
        
          cosa: ridotta a casi di grande eccellenza, in crescitama non abbastanza. Il saldo di questi due flussi i
        
        
          entrata ed inuscitaproduceperciò ricadute complesse su chi rimane. Se cercareunmercatomigliore
        
        
          di questo può salvaguardarci, e noi siamo certi lo sia, gli spunti contenuti in questo numero, espliciti
        
        
          o tra le righe sono molti. Ci piace ricordarne due, ancora in essere. Il primo: a fianco delle molte
        
        
          missioni organizzate da enti ed istituzioni autorevoli esistono delle considerazioni a livello europeo.
        
        
          La Commissione Europea, nel Piano d’Azione Imprenditorialità 2020, ha attribuito agli imprenditori
        
        
          migrantiunruolo importanteper il rilanciodell’Unione sottolineando,per laprimavolta, l’importanza
        
        
          del loro contributoall’imprenditorialità. Secondouna recente indaginedelCnel, il 16%delle imprese
        
        
          immigrate in Italia intrattiene contatti con i Paesi di origine degli imprenditori coinvolti. Queste
        
        
          potenzialità ci vengono portate qui, per via delle n imprese edili straniere a cui manca know how e
        
        
          management forse utili nei loro paesi: potrebbero essere il nostro cavallo di Troia per raggiungerei
        
        
          mercati della loro terra d’origine? La seconda: esportiamo l’Italia. Qualche impresa ci insegna che si
        
        
          può. L’Italia è il nostrobrand, lo sono i luoghi in cui viviamo apartiredalla casa. Bastananismo spesso
        
        
          generatoda ataviche strutture di impresa familiare: organizziamoci in società integrate tra costruttori,
        
        
          produttori, progettisti per un prodotto che rappresenti tutto il bello del nostro vivere. Dal cantiere
        
        
          efficiente, all’intonaco di ultima generazione al progetto degli alloggi agli arredi, le finiture, i tessuti,
        
        
          al caffè prontoper i nostri acquirenti. Filiere chiavi inmano che si presentino conun’organizzazione
        
        
          perfetta sui  mercati di conquista. Il genionon cimanca.Organizziamoloper evolvere.
        
        
          CeciliaBolognesi